Nel 1985 avevo 14 anni e stavo vivendo la classica crisi adolescenziale. Era il periodo dei Duran Duran, dei Tears for Fears, di Madonna, ma io ero stato sempre attratto da un approccio più rock alla musica e adoravo Billy idol e la sua attitudine punk “pulita”. Quell’estate un mio caro amico in montagna mi aveva prestato un vinile che riuniva molte band metal, un genere a quei tempi praticamente sconosciuto.
Judas Priest, Loudness, Black Sabbath, il grande Ronnie James Dio, tutti riuniti in quella raccolta che mi scosse dentro e mi spinse ad approfondire il tema. La mia paghetta del sabato dipendeva sempre dai voti a scuola e se andava male non bastava per comprare un vinile nuovo, quindi quella settimana mi impegnai come un matto per rubare un sette a diritto.
Con il bottino in tasca comincia, come uno squalo con la preda, a girare intorno al negozio di dischi che all’epoca si trovava nei pressi di piazza Attias, nella mia Livorno. Era sempre stipato di ragazzi, tutti che ascoltavano in cuffia le ultime uscite, che facevano mille domande ai commessi, che compravano di tutto…(ah che bei tempi).
Appena entrai mi feci largo tra i paninari che imperversavano in città e mi avvicinai agli scaffali centrali del negozio, dove c’erano le rarità. Fui subito attratto da un vinile che fortunatamente era stato lasciato davanti agli altri e mi aveva riempito gli occhi. Splendido, di un azzurro intenso, con una sedia elettrica al centro circondata da fulmini. Il logo della band era meraviglioso con la M iniziale e la A che chiudevano quella parola così evocativa : Metallica.
Non li avevo mai sentiti ma quel marchio lo avevo già visto da qualche parte. Lo afferrai con un certo timore e lo girai per vedere il retro. Quattro capelloni suonavano incazzati il proprio strumento, uno urlava col basso, uno percuoteva la batteria digrignando i denti, il chitarrista aveva uno strumento con una strana forma a freccia…e poi c’era Lui, James, per molti il personaggio più influente della storia di questo genere estremo.
Andai alla cassa con gli occhi bassi, come se stessi acquistando una rivista pornografica in edicola. Ricordo che il cassiere mi guardò di traverso e fece una smorfia.“Sei sicuro che non lo vuoi ascoltare prima?”Un ragazzino che acquistava un disco thrash non lo vedeva tutti i giorni, era roba da duri, da adulti. Feci no con la testa, pagai e mi dileguai come un ladro. Arrivai a casa e senza salutare nessuno mi chiusi in camera. Avevamo un bellissimo stereo per il periodo, un Tensai analogico che costava un botto, ma non era mai stato abituato a certe sonorità. Tolsi l’album di Renato Zero che mia madre sentiva continuamente e appoggiai sul piatto Ride the lightning avvicinando la puntina al vinile. Da quell’istante tutto cambiò.

Fight Fire With Fire mi spiazzò subito, faceva casino, sfregiava l’udito, ma servì ad accendere la miccia. La successiva title-track era molto complessa per quel periodo, aveva arrangiamenti stratificati, riff potenti ma mai caotici, un uso della voce più comprensibile e assoli di chitarra memorizzabili. Ma fu con For Whom the Bell Tolls che compresi la portata di quello che mi stava accadendo dentro, un vero capolavoro che a distanza di quasi 40 anni non ha mai perso il suo smalto neppure dal vivo.
Ricordo le urla di mia madre che mi supplicava di abbassare quel frastuono. Ma ormai ero come in trance. La side A si chiudeva con un pezzo epocale, il lento Fade To Black. Credo che questo brano vada oltre i gusti personali e che faccia parte della storia personale di tantissimi ragazzi cresciuti come me in quegli anni. Conteneva tutti i tratti distintivi del fenomeno Metallica che qualche anno più tardi avrebbe travolto il globo.
Il lato B si apriva con Trapped Under Ice, che affrontava il tema degli esperimenti scientifici con una violenza disarmante. Escape veniva subito dopo e, nonostante la band l’abbia sempre considerato un riempitivo, io lo adorai da subito per la melodia e i riff stoppati, semplici ma efficaci. E siamo a Creeping Death, la vera devastazione, giustamente uno dei pezzi più amati dai milioni di fans della band che ai concerti gridano “Die!”, come faceva il grande e indimenticabile Cliff Burton, vero protagonista di questo album.
A quel punto ero davvero sconvolto, ma non sapevo che avrei dovuto scoprire ancora una pietra miliare del metal. Quando penso a uno strumentale il primo titolo che mi viene in testa è, e sarà sempre, The Call of Ktulu. Lo so che ci sono band straordinarie come i Rush che ne hanno scritti di migliori, ma questo brano è speciale, cresce e ti trascina tra le pagine dei libri misteriosi di Lovecraft.
Mamma mia che ricordi, che brividi. La puntina si era rialzata e il vinile aveva smesso di girare. Ma la tempesta emotiva che avevo dentro non accennava a placarsi. Cazzo, volevo imparare a suonare la chitarra, dovevo provare sulla pelle quell’adrenalina. Era ora di cena ma non volli sentire ragioni. Affrontai la punizione e restai fino a tarda sera davanti allo stereo ad ascoltare e riascoltare quell’oggetto prezioso che ancora oggi fa parte della mia vita.
Nonostante abbia i solchi scavati in modo impressionante non mi sono mai preso il cd, non potevo fargli questo.
Ecco cosa ha rappresentato per me Ride the lightning, ecco quanto ha condizionato la mia carriera artistica e il mio gusto musicale. Ma adesso mi piacerebbe conoscere la vostra storia, scoprire se ci sono storie differenti o magari simili alla mia riguardo a questo album che finalmente tutti considerano fondamentale per l’affermazione del metallo pesante e non più il fratello minore di Master of Puppet. Vi aspetto numerosi, l’arte va condivisa.
Alessio Santacroce